Alla ricerca del padre scomparso...

Ero lì vent’anni dopo, su quello stesso letto dove presi la decisione più importante della mia vita, quella di denunciare mio padre e i suoi amici, per i crimini da loro commessi. Ero immobile, con il pallone da spiaggia ormai sgonfio in mano, quando sentii bussare alla porta della mia stanza: era uno dei bambini della casa protetta dove lavoravo, quando al giornale non avevo nulla da fare. Il nome del piccolo era Carmine, Sì, proprio Carmine, come il panettiere che pochi giorni prima mi aveva lasciato per sempre, lui così pignolo, così laborioso, così…così Carmine. Comunque, tornando a noi, il piccolo Carmine aveva interrotto il mio momento di riflessione, ma per questo non ero arrabbiato, perché a pensare a mio padre e al male che aveva fatto, mi veniva voglia di spaccare tutto. Mi alzai dal letto e aprii la porta: il piccolo era lì che piangeva. Lo feci entrare e d’istinto lo abbracciai, come Carmine mi abbracciava un tempo. Restammo zitti, per qualche minuto, prima che Carmine iniziasse a raccontare: “Ieri ho sentito Lucia l’educatrice che parlava di mio padre. Io non voglio tornare a casa, non ci voglio tornare mai più!” Il piccolo proveniva da una famiglia molto simile alla mia: i genitori spacciavano le sorelle maggiori aiutavano con le dosi e lui era costretto a fare le bustine. Lo rassicurai dicendogli che nella casa protetta era al sicuro, Mentre gli dicevo questo mi telefonarono dalla redazione: il padre di Carmine aveva ucciso Sara, l’educatrice a cui il piccolo era più affezionato.
Una lacrima bagnò la mia guancia. Dissi al piccolo che dovevo andare via e mi diressi correndo alla redazione, tra le lacrime. Chiesi al mio capo tutte le informazioni sul caso e iniziai a lavorarci su: Sara era andata a prendere un regalo per il compleanno di Carmine, quando il padre e i suoi amici la accerchiarono, le rubarono tutti gli oggetti di valore e la sgozzarono. Giurai a me stesso che avrei catturato a tutti i costi quei malviventi. Per prima cosa tornai alla casa protetta e parlai con Carmine. Gli chiesi dove suo padre e i suoi amici tenevano la droga, fortunatamente lui lo sapeva. Andammo alla Centrale di polizia dove denunciammo il padre di Carmine.
Passò meno di una settimana e i poliziotti ci ricontattarono: purtroppo il padre di Carmine era riuscito a scappare ancora e non l’avevano trovato nel posto indicato dal bambino. Riferii al piccolo la notizia e lui disse che sapeva dove poteva essersi nascosto. Salimmo in macchina e ci dirigemmo verso la zona industriale: era la stessa zona squallida e desolata in cui mio padre mi aveva portato a sparare per la prima volta. Lì, nascosto in un capannone abbandonato trovammo il nostro uomo. Carmine corse da lui e l’uomo lo abbracciò. Era senz’altro un quadretto familiare, ma quell’uomo aveva fatto del male e andava punito. Padre e figlio si avvicinarono a me e salirono in macchina, senza fiatare, con quell’uomo ci scambiammo solo un rapido sguardo, mi sembrò per un attimo di vedere gli occhi scuri e determinati di mio padre quando voleva che sparassi per essere un uomo, ma da quello sguardo triste capii anche che il padre di Carmine era stanco di scappare, forse si vergognava persino di aver ucciso una giovane donna...Non lo saprò mai. L’unica frase che lui disse fu: “Alla polizia”. Mi diressi verso la Centrale e l’uomo parlò con l’ispettore e si autoconsegnò alla polizia. Io e Carmine tornammo alla casa protetta, mentre il padre, pentito, raggiungeva la sua cella.

Anita Battel e Alexandra Giusta
Classe 2A Scuola Secondaria di Fontaneto d’Agogna